di Virginia Di Falco
Pipero al Rex. Io non lo so quanti ristoranti al mondo portano il nome del maestro di sala. E, soprattutto, non so quanti maîtres al mondo fanno circolare la fama del ristorante alla stessa velocità della sala.
Quel che è certo è che quando prenoti da Pipero al Rex hai la matematica certezza di come verrai accolto. In una piccola sala da pranzo elegante, con soli sei tavoli, un camino antico che protegge preziose bottiglie, e un bancone da modernariato, vero e proprio Panopticon dal quale tutto si decide e nulla sfugge.
Alessandro Pipero è sempre in forma smagliante (i chili in più gli fanno un baffo, come ben sa chi segue i suoi celebri aforismi su Facebook); essere seguiti – meglio: condotti – da lui è un piacere.
Menu e carta dei vini si leggono quasi per dovere di cronaca: niente è più bello che costruire insieme il percorso degustazione, con un wine pairing che non delude mai e anzi nasconde spesso piacevoli sorprese. Ma, soprattutto, è dal primo scambio di battute sulla scelta delle portate che viene fuori la vera carta vincente di questo posto: l’intesa perfetta tra Alessandro Pipero e lo chef, Luciano Monosilio. Sin dall’inizio, medesimo approccio alla cucina – e dunque alla vita – informale ma anche serissimo. Ricerca e rispetto di prodotti e tecniche senza limiti e confini geografici, ma anche fermezza nel ricordare le proprie radici, che solo chi ne ha di millenarie può difendere con tanta caparbietà e un pizzico di cinismo.
Vanno di pari passo, dunque, Alessandro e Luciano. Persino sulla ormai mitica carbonara a peso: si sono entrambi un po’ stufati che si parli quasi solo di lei, ma allo stesso tempo pensano che sia la più buona di Roma. E speciale lo è davvero, con una cottura e mantecatura dell’uovo praticamente perfette, e un guanciale pieno e croccante al tempo stesso.
Ma nulla resta uguale per sempre. E allora via a scoprire altri amuse bouche, diversi abbinamenti, nuovi piatti.
L’amuse bouche rimane la parte giocosa del pasto, quella in cui forse cucina e sala si divertono di più insieme, tanto nella tecnica che nell’abbinamento del vino, mai scontato. Si comincia con un bon bon di ciauscolo (tipico salume marchigiano) con un calice di champagne come benvenuto. E poi la «finta» oliva, ricostruita col suo patè, al caprino; le alghe croccanti con la crema di miso; il cracker di porchetta con yogurt e le bellissime ferratelle abruzzesi, servite con gocce di patè di fegatini di pollo e gelatina di champagne. Si gioca, certo. Ma non si inventa nulla. Mediterraneo e campagna romana vincono sui richiami esotici. Vincono su tutto.
Gli antipasti. Per me, i piatti più riusciti. Ci stanno tutti strettissimi, ciascuno a suo modo, nella parola antipasto. Intanto, perché con gli appetizer si è solleticato al punto giusto tanto lo stomaco che la curiosità. Poi perché si tratta di piatti complessi, completi, di corpo e spessore. Il primo, Seppia e piselli, appare come il più delicato. Invece ogni ingrediente ha la sua forza, la sua bella consistenza in contrasto col resto; e stupisce per i germogli che immagini fragili e invece li senti dall’inizio alla fine.
Ad un primo impatto lo sgombro con maionese al wasabi, rafano e patata nell’argilla si presenta come un piatto nordico, forse perché solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile un pesce così povero su una tavola stellata. Ma invece Monosilio ha in testa proprio l’idea del lacerto molto più che del maccarello quando bilancia il suo grasso buono con la barbaforte.
Ricco e goloso, quasi un secondo piatto in realtà, l’uovo in crema di patate, affumicato con tè cinese (Lapsang Souchong) e le nocciole croccanti a dare consistenza al boccone.
Infine, il piatto che ho amato di più a questo giro, Trippa e cozze. Già dal nome subendo l’attrazione un po’ perversa che c’è sempre ogni volta dietro la rilettura di un piatto più che popolare. Come ad esempio accade con il profumo – anzi, l’odore – del carciofo arrostito nei piatti di Gennarino Esposito. Che riconosci perché lo hai sentito per strada provenire da fornacelle improvvisate che non hai mai osato avvicinare.
Qui al primo boccone la trippa è trippa. Quella delle osterie romane. Senza effetti scenici. E la sapidità del sughetto quella semplice semplice delle cozze. Con la schiuma di pecorino a completare la più terragna delle combinazioni.
Ecco. Monosilio è soprattutto questo. Testa e mani che lavorano per far uscire fuori un’idea vincente, appagante, ben costruita. E poi, però, poter dire «non mi sono inventato nulla».
Sui primi piatti.
La mitica carbonara forse è la più recensita della storia e si continua ad ordinare, perché continua a piacere. «Contenti voi», bofonchia Luciano, che sull’argomento ha detto tutto quello che aveva da dire, e sulla pasta ha la testa altrove, già da un bel po’. E infatti i rigatoni con broccoletti, salsiccia e foam di pecorino non sono nuovi, ma sempre eccezionali, per cottura, equilibrio e veracità. Un piatto tosto, per nulla delicato, dove vince la robustezza della verdura e il grasso cremoso del pecorino, la salsiccia serve solo a dare croccantezza, quasi un po’ a sorpresa, dopo che avrete fatto affondare ogni rigatone nel verde e nel bianco.
I secondi di carne si distinguono entrambi per la cottura perfetta, con la presa di maiale di un bel rosa dentro, come solo con il pata negra si può fare. E l’agnello irlandese affumicato (qui ritorna il Lapsang Souchong) con l’idea di alici e la salsa di lamponi a dare la giusta sferzata finale.
Il pre dessert, con il cubetto di cocomero caramellato nella sangria e salato in superficie annuncia la cifra del fine pasto secondo Monosilio. La parte golosa, anche quando c’è il cioccolato bianco, non è eccessivamente dolce, e la freschezza della frutta, così come il crumble, non mancano mai.
In definitiva, la conferma forte e chiara di una sala che gira bene, in perfetta sintonia con la cucina, entrambe vivaci e senza segni di stanchezza. Pipero trova sempre il tempo per una battuta, senza risparmiarsi neppure in inglese, e al tempo stesso segue in maniera serissima i giovani che sono con lui. Sicuro com’è di formare con Monosilio la coppia più bella del mondo.
E io credo che sia proprio così.