IL cibo italiano non è mai entrato in crisi, in Italia e nel resto del mondo occidentale. Nel 2014, racconta il Censis, il valore delle esportazioni di prodotti alimentari e bevande è stato di 28,4 miliardi di euro: un terzo in più rispetto a cinque anni prima. E nelle prossime cinque stagioni Federalimentare vuole arrivare a 50 miliardi. Il nostro Parmigiano, i chinotti di Lurisia e il pane di Altamura insieme a tanti altri si sono diffusi in Germania (+17,3%) e Francia (+20,5%), nel Regno Unito (+23,6%) e negli Stati Uniti (+37,8%). Il livello delle esportazioni francesi e inglesi pesa, visto che sono stati a lungo mercati ostili (il primo) o disinteressati (il secondo, dove si stanno imponendo, per esempio, le birre nostrane). Va ricordato che questi numeri sono stati prodotti nel periodo – 2009-2014 – più duro della recessione.
La richiesta di italian food è occidentale ed è pure metropolitana. Arriva da quella fetta di abbienti cittadini, gli affluent (di Milano e di New York), che chiedono bontà e sicurezza e con le loro scelte guidano i mercati. Sono urban tribes che leggono le etichette, il menu e fanno domande. Gli italiani “influenti” non sono spreconi, visto che spesso affiancano al consumo la ricerca del prezzo conveniente, fosse il negozio specializzato, il ristorante tipico: “Da noi c’è una sapienza nella gestione della spesa della cucina e della tavola”, dice la ricerca.
Sono 876 i prodotti alimentari italiani di origine e certificazione controllata iscritti nei registri ufficiali dell’Unione europea: 273 alimentari e 603 vini. In Francia sono 671, in Spagna 326. L’Italia è leader per le imprese biologiche: ne ha 45.969, un sesto dell’intera Ue. Paese dell’ampia biodiversità, il nostro ha tanta ristorazione che può rivelare origine, significato e riferimenti storico-geografici di quello che offre. Si chiama tracciabilità, si esprime con le certificazioni Doc, Docg e Dop e racconta la biografia delle comunità locali e dei territori. Il 50,2% degli italiani, d’altro canto, ritiene che il patrimonio enogastronomico incarni l’identità delle comunità locali più del patrimonio artistico, culturale o paesaggistico: 43,9 milioni di italiani mangiano regolarmente prodotti e piatti italiani, altri 6,2 milioni lo fanno di tanto in tanto. E con la crisi abbiamo imparato a mangiare meglio con meno: il 38,4% dichiara che negli ultimi cinque anni la propria alimentazione è migliorata, il 49,8% afferma che è rimasta della stessa qualità. La spesa per mangiare “fuori” nel 2014 è cresciuta del 4,9% rispetto al 2007.
C’è un pragmatismo alimentare degli italiani, e la solita capacità di adattamento. Meno di cinque milioni seguono regolarmnte una dieta vegetariana, ma il triplo ogni tanto la fa. Cercano i prodotto bio, ma venti milioni frequentano il fast food per far contenti i bimbi e perché costa poco. La ricerca Censis, “Italian food, le ragioni di un successo globale”, lo chiama “neopoliteismo alimentare”. Il 64,6% pensa che non esistano cattivi alimenti e questo aiuta a non sprofondare nel terrore nei periodi in cui cattive notizie mettono il faro su una larga sofisticazione. “Siamo refrattari a ortodossie, fanatismi, diktat”. Le diete degli italiani, oggi, “sono molto migliorate rispetto a cinque stagioni fa”.
Lo sguardo sociale, ecco, si è di rivolto verso il cibo attribuendogli nuove funzioni e significati. L’italiano che ha voluto la casa di proprietà a partire dai Cinquanta, poi la macchina, che negli Ottanta-Novanta si è concentrato sugli abiti griffati e la vacanza annuale, ora – con uno stile di vita improntato alla sobrietà – ha fatto del cibo “il perno di un modo di rapportarsi ai consumi e alla vita non più secondo logiche di consumo compulsivo “. Nell’anno dell’Expo il modello alimentare italiano “è una soluzione reale, sostenibile, a-ideologica che va messa all’attenzione del mondo”.